L’Uganda dagli occhi di Filippo Patusso

Nel cuore pulsante della cucina del nostro hotel La Perla, c’è chi, oltre a lavorare con passione tra i fornelli, ha avuto l’opportunità di vivere un’esperienza capace di lasciare un’impronta profonda. Filippo Patusso, giovane e motivato commis di cucina, nell’ottobre del 2024 ha preso parte a un viaggio straordinario in Uganda, organizzato dalla Costa Family Foundation. Scopo del viaggio: conoscere da vicino i progetti umanitari in Uganda sostenuti dalla Fondazione, toccando con mano il significato concreto della parola “aiuto”.

In questa intervista, Filippo ci racconta il suo vissuto, le emozioni, e le riflessioni che ha riportato con sé.

Filippo, a soli 22 anni hai scelto di investire tempo e risorse per un viaggio in Uganda con la Costa Family Foundation. Non è una scelta comune alla tua età. Cosa ti ha spinto a intraprendere questa esperienza?

Spinto da un misto di curiosità e ignoranza, sono partito senza troppe idee in testa, con poche aspettative ma con il desiderio di vivere qualcosa di nuovo e diverso. Da anni sognavo un’esperienza all’estero, così ho deciso di prendermi queste due settimane senza sapere esattamente cosa mi avrebbe atteso. Non nascondo che volevo anche inaugurare il mio passaporto con un viaggio che meritasse davvero un timbro.

Prima di partire, qual era la tua immagine dell’Africa? E quanto questa immagine è cambiata una volta arrivato?

Ho sempre nutrito una grande passione per la geopolitica e per ciò che accade nel mondo, ma ho scelto di non farmi un’idea preconcetta prima di partire. Ho evitato di informarmi troppo, limitandomi a pochi video, perché volevo vivere un’esperienza il più autentica possibile. Con la mente libera e senza aspettative, sono arrivato lì con uno sguardo puro. Senza preconcetti, tutto ciò che ho vissuto non ha fatto altro che arricchirmi: i suoni, i silenzi, i paesaggi naturali. Per uno come me, cresciuto in un piccolo paese di campagna, il viaggio è stato uno shock culturale totale.

In Karamoja e Moroto abbiamo visto orti e coltivazioni che permettono alle comunità di autosostenersi. Come hai vissuto l’incontro con un’agricoltura così diversa da quella a cui siamo abituati?

Venendo dalla campagna, ho subito notato come in alcuni aspetti certi progetti agricoli fossero più avanzati dei nostri. Mentre da noi le campagne vengono progressivamente abbandonate, in Uganda ho visto terre coltivate con cura, passione e un autentico interesse per l’agricoltura. È stato incredibile rendersi conto di quanta dignità ci sia nel loro lavoro.

Per chi viene da una realtà rurale, vedere l’importanza che danno alla terra è toccante. Da noi, l’agricoltura sta perdendo valore, mentre lì rappresenta un simbolo di riscatto e di orgoglio. È quasi un paradosso: abbiamo condizioni più favorevoli per coltivare, ma spesso lo diamo per scontato, mentre loro, con un impegno straordinario, riescono a trasformare il lavoro nei campi in un atto di resilienza e fierezza. E forse è proprio questo il punto: in molti paesi, l’agricoltura è vista come un mestiere marginale, mentre in Uganda è motivo di orgoglio e identità.

Tra le tante realtà che abbiamo visitato – scuole, pozzi, orfanotrofi – c’è stata una in particolare che ti ha lasciato un segno indelebile?

L’esperienza più dura è stata senza dubbio la visita alle scuole di Moroto, le ultime che abbiamo visto, un vero pugno nello stomaco. Sono scuole grandi, piene di bambini, ma ciò che mi ha colpito di più sono state le loro condizioni di vita. Dormivano in letti ammassati, con stanze che ospitavano fino a 300 bambini. Vedere tutto questo ti fa sentire in colpa e ti costringe a riflettere sulle priorità del nostro mondo. La nostra quotidianità, lì, sembra quasi irreale.
L’esperienza più positiva, invece, è stata la visita a una piccola scuola in mezzo alla savana, dotata di orti e impianti di irrigazione. Qui, nonostante le dimensioni ridotte, si percepiva chiaramente il cambiamento che un orto può portare: un sostegno concreto per la scuola, più cibo per i bambini e, di conseguenza, un aumento dell’affluenza scolastica. È incredibile quanta differenza possa fare una realtà così piccola e semplice ma ben organizzata.

Questo viaggio non è solo una scoperta del mondo esterno, ma anche di te stesso. Qual è stata la lezione più grande che hai imparato?

È stata un’esperienza che apre gli occhi, in modo inevitabile e immediato. Fin dal primo momento, con il giro negli slum, non si trattava di una semplice visita, ma di un confronto diretto con una realtà dura, che ti costringe a comprendere l’importanza della missione di Insieme si può. Questa esperienza è stata una delle più significative della mia vita, capace di farmi rivalutare tutto ciò che davo per scontato. Come ad esempio la sostenibilità nei ristoranti e lo spreco di cibo: mentre in Uganda molte persone non hanno neanche un posto dove dormire, figuriamoci da mangiare. In un contesto del genere, certe parole che usiamo con leggerezza sembrano quasi fuori luogo.

Hai dimostrato una maturità che va oltre la tua età. Qual è stato il momento in cui hai sentito più forte il valore del gruppo?

Ce ne sono stati molti. Il primo che mi viene in mente è stato quando la nostra macchina ha rischiato di rompersi mentre viaggiavamo dal Murchison Park verso Moroto. Il nostro driver si è accorto di una perdita di carburante e, con incredibile ingegno, l’ha riparata usando un chiodo e un sacchetto di plastica. Prima ancora che trovasse una soluzione, però, siamo scesi tutti insieme e abbiamo iniziato a girare tra i local per cercare aiuto. Alla fine, è riuscito a cavarsela da solo, e noi siamo riusciti a tappare la falla nel serbatoio, evitando il peggio.

Un altro momento speciale, sempre a Moroto, sono state le cene nei bungalow, dopo le intense giornate di visite alle scuole. Ritrovarsi a tavola, parlare e condividere le emozioni della giornata è stato il modo migliore per elaborare ciò che avevamo vissuto. Il confronto è stato fondamentale: poter esprimere ciò che ci aveva turbato e discutere le nostre impressioni ha reso il viaggio ancora più significativo. Il dialogo costante ci ha permesso di scaricare la tensione e di creare un legame profondo. Alla fine del viaggio, eravamo uniti da un’esperienza che ci aveva cambiato tutti.

Abbiamo incontrato tante persone che vivono con pochissimo, ma che ci hanno insegnato molto. C’è stato un gesto o una frase che ti ha particolarmente toccato?

Le due sorelle che abbiamo incontrato nel villaggio dietro l’aeroporto di Entebbe sono state uno degli incontri più toccanti del viaggio. Quel villaggio portuale abbandonato era già difficile da raggiungere, con controlli e polizia ovunque, dato che si trovava proprio sulla sponda dell’aeroporto. I ragazzi di Insieme si può avevano conosciuto queste due donne, entrambe sulla cinquantina, l’anno precedente, e questa volta erano tornati con una fotografia da donare loro. Quando una delle due ha ricevuto la foto, i suoi occhi si sono illuminati in un modo che non dimenticherò mai. Penso di non aver mai visto un sorriso così grande per un gesto così semplice.
Sul tragitto di ritorno, abbiamo poi incontrato un altro uomo che il gruppo aveva conosciuto l’anno prima. Aveva chiesto solo un piccolo aiuto per lavorare come calzolaio: filo, ago e stringhe, e un anno dopo lo abbiamo ritrovato lì, sereno, mentre aggiustava scarpe. Quando ha visto le foto di quell’incontro passato, si è emozionato fino alle lacrime.
Per noi, sono gesti che non costano nulla, ma per loro significano il mondo. In quei sorrisi ho visto una felicità autentica, forse la più pura che abbia mai incontrato.

Fabio mi ha detto che vorrebbe proporti di girare il prossimo “Mamma (o quasi) perso l’aereo. Che è successo? (Ride)

Conoscevo già l’aeroporto di Venezia, quindi ero abbastanza tranquillo. Gli altri del gruppo erano arrivati con due ore di anticipo, mentre io, con la mia solita precisione, sono arrivato appena mezz’ora prima dell’imbarco. Pensavo di aver calcolato bene i tempi… ma alla fine ce l’ho fatta per un soffio! 

Il tuo momento più divertente in Uganda?

Gli svarioni in macchina durante le traversate per le risate sono stati un altro momento indimenticabile. Tornando verso Kampala con i ragazzi di Insieme si può, la risata è diventata così contagiosa che sembrava non finire mai. Le trasferte sono state tutte bellissime, ognuna con il suo carico di momenti di scherzo e complicità, in quella che sembrava una bolla sicura. Era il modo perfetto per sdrammatizzare, per alleggerire ciò che vedevamo per le strade, spesso molto duro. Condividere quei momenti ci ha unito ancora di più e ha reso il viaggio ancora più speciale.

Kampala, con la sua confusione, o Moroto, con la sua calma? Di quale fazione sei?

Moroto, tutta la vita, per il fatto di essere immersa nel nulla. Mi ha dato una calma diversa, una sensazione di pace che non avevo mai provato. Nonostante fosse la zona più povera che ho visto, lì ho trovato una dignità che in città, nella capitale, sembra spesso mancare. In un luogo così remoto, la vita è più semplice, ma al contempo ricca di valore e rispetto. È una bellezza cruda, ma autentica, che mi ha davvero toccato nel profondo.

Vedendo il lavoro della fondazione, quali progetti ti hanno fatto riflettere di più sull’importanza di ciò che facciamo?

Il progetto che più mi ha colpito riguarda gli orti e i pozzi nella zona del Karamoja, un’area dove la terra è ancora più arida di quanto immaginabile. La possibilità di avere acqua potabile per le famiglie è fondamentale per la loro sopravvivenza. Lezioni su come coltivare la terra sono cruciali per creare indipendenza in questi villaggi. Vederli interessati alla microfinanza e orgogliosi di gestire i propri orti è qualcosa di straordinario, perché significa essere in grado di vivere senza dipendere da aiuti esterni. L’aiuto vero sta nel rendere queste persone autonome, restituendo loro la dignità e la consapevolezza di cosa possono fare.

Come pensi che questa esperienza influenzerà il tuo futuro, sia personale che professionale?

A livello professionale è stato secondario, ma a livello personale mi è servito per darmi coraggio, affrontando un viaggio così lontano che vedevo come una vera e propria prova. Mi è piaciuto tantissimo e continuerò a viaggiare. Spero di poter fare ancora qualcosa nel campo della beneficenza e del volontariato, magari aiutando Insieme si può, mi piacerebbe davvero tanto. Questo viaggio mi ha aperto la mente in modi che non avevo mai considerato prima.

Infine, Filippo, se dovessi descrivere l’Uganda con un sapore, quale sarebbe?

Panna e fragole, il sapore della guava. Quel gusto inconfondibile che ricorda la ciotolina che prepariamo in estate, un sapore indescrivibile. Ho creato un piccolo booklet di tutto ciò che ho assaggiato e fotografato: piante, tamarindo, l’albero di neem, piantine che fungono da repellente per zanzare. Sono molto curioso e ho trovato chi mi ha potuto aiutare a scoprire tutto questo. Dal punto di vista naturalistico, sono stati i paesaggi più belli che abbia mai visto.

 

Le parole di Filippo ci ricordano quanto sia potente l’incontro tra culture e quanto ogni piccolo gesto possa generare un grande impatto. Ma il suo è solo uno dei punti di vista su un’esperienza che ha coinvolto anche altri membri della Costa Family Foundation. Ti invitiamo a proseguire questo viaggio attraverso le interviste a Serena Rela, Project Manager della Fondazione, e a Fabio Bertocchi, Responsabile della Fondazione, che a loro volta hanno condiviso impressioni, emozioni e speranze nate da questa avventura umana e solidale in Uganda.