L’Uganda vista da Bianca: storie, volti e speranza oltre i confini
Per Bianca l’Uganda è stato il primo incontro con l’Africa, un viaggio desiderato a lungo, nato da un profondo interesse per i diritti umani e dal desiderio sincero di mettersi a disposizione. Insieme alla Costa Family Foundation, ha attraversato slum, scuole, pozzi e villaggi remoti, portando con sé uno sguardo sensibile e attento, e tornando con il cuore pieno di volti, storie ed emozioni che lasciano un segno. Quello che racconta non è solo un diario di viaggio, ma un’esperienza trasformativa che le ha mostrato quanto la solidarietà possa attecchire anche dove sembra impossibile.
Bianca, per te era la prima volta in Africa, un viaggio intenso e pieno di emozioni. Cosa ti ha spinto a
partecipare a questa esperienza con la fondazione?
Sono sempre stata interessata al tema dei diritti umani e ho sempre desiderato portare un contributo, anche se piccolo, a chi ne ha bisogno. Mi aspettavo di trovare una realtà difficile, segnata dalla povertà e speravo di conoscere storie colme di speranza. La realtà dell’esperienza ha superato però le mie aspettative in entrambi i sensi: per la durezza della povertà, ma anche per la bellezza della speranza e della forza che ho visto nelle persone.
Tra le tante realtà che abbiamo visitato – gli slum di Kampala, i pozzi, gli orti, le scuole, gli orfanotrofi – quale ti ha colpito più profondamente e perché?
La realtà che più mi ha colpita è sicuramente quella degli slum, prima di partire mi ero documentata e credevo si sapere che tipo di situazione avrei trovato. La realtà, però, è stata molto più travolgente di quanto mi aspettassi, nulla mi aveva preparato alla durezza della vita e alle difficoltà che affrontano queste persone. Quello che più mi ha colpita è la solidarietà delle persone e la loro resilienza.
So che il tema dei bambini abbandonati e vittime di violenza ti sta particolarmente a cuore. C’è stato un momento durante il viaggio in cui hai sentito che il tuo percorso di studi in psicologia poteva essere una chiave per comprendere ancora di più le loro storie?
Mi sono emozionata molto quando abbiamo conosciuto le Charity Sisters di Madre Teresa: sono una congregazione di suore che accoglie bambini di età compresa tra 0 e 3 anni, orfani o provenienti da famiglie in situazioni di vulnerabilità. Tra di loro, alcuni sono stati abbandonati, altri sono orfani di parto, alcuni sono sieropositivi o affetti da tubercolosi. Le Charity Sisters di Madre Teresa non solo offrono un rifugio sicuro per questi bambini vulnerabili, ma rappresentano anche un punto di riferimento fondamentale per la loro crescita fisica, emotiva e sociale. L’attenzione che le suore dedicano a questi bambini va oltre il soddisfacimento dei bisogni immediati: ogni bambino ha diritto a una cura che riconosca la sua unicità e il suo diritto a crescere in un ambiente che favorisca la sua dignità. I bambini che hanno una figura di riferimento, come un genitore o un parente, sono accompagnati da essa durante l’intero periodo di permanenza nella struttura. Questo supporto facilita il loro reinserimento nella comunità di origine e contribuisce al loro sviluppo. Avere una figura di riferimento, che insegni loro anche le cose più semplici come gattonare, giocare o socializzare, può sembrare un aspetto banale, ma in realtà è cruciale per migliorare la qualità della loro vita, non solo nel presente, ma anche e soprattutto nel loro futuro.
Ogni gesto quotidiano, ogni parola, ogni sorriso condiviso con una persona stabile e amorevole può fare la differenza in termini di sviluppo delle competenze sociali, di autostima e di capacità di relazionarsi con gli altri. Questo supporto affettivo, che talvolta può sembrare scontato, è invece una delle chiavi più potenti per prevenire future difficoltà psicologiche e comportamentali.
Karamoja e Moroto rappresentano due volti dell’Uganda più remota e complessa. Come hai vissuto l’incontro con le comunità di quelle aree così isolate?
Queste due aree rappresentano davvero un’Uganda remota e complessa, le risorse sono poche e sempre più minacciate dal cambiamento climatico. Le persone che abitano questa regione vivono in condizioni di grave insicurezza alimentare e per i bambini spesso l’unico pasto della giornata è quello che ricevono a scuola. Vedere come queste comunità, grazie a progetti come Seminando Speranza, siano riuscite a coltivare degli orti in un’area arida e quasi priva di acqua è stato incredibile.
Ci sono situazioni di estrema povertà, come quelle degli slum, che mettono alla prova. Qual è stata la tua reazione? E come hai trovato un equilibrio tra l’empatia e il non farti travolgere?
Inizialmente non sono riuscita a trovare un equilibrio, l’impatto emotivo di queste realtà è stato travolgente. Non riuscivo, e non sono riuscita tutt’ora, ad accettare che le persone possano vivere in condizioni tanto difficili. Mi sono sentita impotente. Ho cercato di comprendere che ogni piccolo gesto di aiuto ha un valore e ho cercato di tenere a mente che empatia significa anche saper ascoltare ed essere presenti. È stato utile avere delle risorse emotive ma sicuramente fondamentale è stato il confronto con i miei compagni di viaggio e con i ragazzi di Insieme si può. Ho imparato che l’empatia è essenziale ma deve essere accompagnata da un senso di consapevolezza e di realismo per essere utile.
Durante il viaggio, hai conosciuto bambini con storie molto difficili. C’è stato un momento in cui uno sguardo, un gesto o una parola ti hanno particolarmente toccato?
Sono rimasta molto colpita dalla generosità e dal senso di condivisone che hanno questi bambini a cui manca tutto. Quando abbiamo consegnato loro materiale scolastico, come matite e quaderni, ogni bambino passava la matita al compagno anche se era evidente che non ce ne erano per tutti e che quindi qualcuno di loro sarebbe rimasto a mani vuote. Ho pensato alla me bambina e al fatto che probabilmente io avrei passato la matita solo dopo averne avuta almeno una al sicuro nella mia tasca.
Vedendo i progetti della fondazione, dai pozzi che portano acqua alle scuole che offrono un’educazione, hai percepito un senso di speranza? Qual è stato per te il segno più evidente di cambiamento positivo?
Quello che mi dà speranza, e che credo sia la cosa più bella che ho visto, è la differenza che può fare il cambiamento di anche solo una persona. Le persone che grazie a questi progetti hanno potuto ottenere un riscatto nella vita hanno scelto di rimanere nelle vicinanze del posto in cui sono nate e cresciute, in alcuni casi non si sono proprio spostate. Compiendo sacrifici e rinunce hanno aiutato a loro volta altre persone della comunità, trasmettendo loro le competenze che hanno acquisito tramite i corsi di formazione e donando loro la possibilità di accedere a condizioni di vita migliori. Hanno preferito dare la possibilità ad altre persone di accedere a corsi di formazione rinunciando ad avere in dotazione strumenti migliori per compiere il loro lavoro. Avrebbero potuto scegliere di allontanarsi da luoghi che a primo impatto hanno solo miseria da offrire, hanno invece scelto di rimanere e di essere parte di un cambiamento. Questo credo sia un grandissimo esempio di solidarietà e responsabilità sociale. Per questo motivo il cambiamento di anche solo una persona può avere un impatto che va molto oltre la dimensione individuale.
Bianca, che cosa vorresti dire a chi ci sostiene dall’Italia e magari non immagina quanto possa fare la differenza un pozzo o una scuola in questi contesti?
In questi contesti anche la più piccola cosa può fare la differenza, se non lo capiamo è perché non siamo consapevoli del nostro privilegio.
Questa esperienza ha sicuramente lasciato un segno in te. In che modo ti ha arricchito, sia come persona sia come futura psicologa?
Sono molto più consapevole non solo delle sfide che queste persone affrontano, ma anche di quello che concretamente possiamo fare e che ho intenzione di fare.
Se dovessi descrivere l’Uganda in tre parole, quali sceglieresti?
Calore, affetto e condivisione.
E infine, Bianca, cosa porterai per sempre con te di questo viaggio?
La meraviglia e la curiosità di un bambino che tocca la tua pelle perché molto bianca e i tuoi capelli perché molto lisci. Il calore di un abbraccio spontaneo. La paura dei Marabù. Le storie delle persone che ho conosciuto. La bellezza dei paesaggi e i colori dei tramonti. Il sapore dei rolex di Ema. La sensazione di essere a casa in un posto così lontano.
Dall’impatto iniziale allo stupore, dalla fatica emotiva alla meraviglia dell’incontro: l’Uganda per Bianca è stata una lezione di vita, dentro e fuori. Le persone che ha incontrato, i bambini che l’hanno fatta sorridere, le comunità che resistono e si reinventano, le hanno lasciato molto più di un ricordo. Oggi porta con sé una consapevolezza nuova, personale e professionale. E il desiderio, più forte che mai, di continuare a esserci. Perché anche una sola persona, con gesti semplici e sinceri, può davvero fare la differenza.